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Divario di genere: l'Umbria non può restare a guardare

16 febbraio 2024
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L’Italia è uno dei paesi dell‘Unione Europea in cui il divario tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile è più alto. Nonostante i progressi fatti nel secolo scorso per garantire pari opportunità, complici i persistenti stereotipi sul lavoro familiare e di cura, le donne si ritrovano spesso più inattive o maggiormente penalizzate nell’inserimento lavorativo rispetto agli uomini.

Il recente rapporto AUR, Agenzia Umbria Ricerche, dedicato alle asimmetrie di genere, ha messo in luce le disparità tra uomini e donne nella società umbra, sia a livello economico che sociale. Il documento evidenza come le lavoratrici umbre oltre ad essere penalizzate dal punto di vista remunerativo rispetto agli uomini, sono al di sotto degli standard anche rispetto a quanto accade a livello medio nazionale, con uno scostamento del -6,3%, e ancor più nel Centro-Nord, dove la differenza sale al -10.9%.

Nel 2021 sono state 620 le dimissioni e le risoluzioni consensuali del lavoro delle madri con figli fino a tre anni. La maggior parte di queste rinunce è attribuibile alle difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare. Le lavoratrici madri incontrano inoltre minori opportunità lavorative: nel 2022, in Umbria, a fronte di 100 donne (età compresa tra i 25 e i 49 anni) occupate e senza figli, ce ne sono solamente 80 con almeno un figlio in età prescolare.

"C’è bisogno di maggior sostegno. - dichiara Vanda Scarpelli, segreteria Cgil di Perugia - Spesso le donne si trovano a dover gestire carichi familiari e di cura che ricadono principalmente su di loro. Una situazione che si riflette in una minore disponibilità al lavoro, con conseguenti impatti sul salario e sui servizi pubblici. La situazione è aggravata anche dalla crisi sanitaria e dalla carenza di servizi per le persone anziane in cui versa la regione. Molte anziani e le loro famiglie infatti si ritrovano a dover fare i conti con liste d’attesa lunghissime per avere accesso alle strutture sanitarie adeguate”, prosegue Scarpelli, sottolineando le sfide che le donne devono affrontare nel bilanciare il lavoro con le responsabilità familiari e di cura.

Una larga porzione dell’occupazione femminile si ritrova poi impegnata principalmente in settori poco specializzati, poco retribuiti e caratterizzati da un’alta concentrazione di rapporti di lavoro parziale e a tempo determinato.

Scarpelli ha evidenziato come: "Nel privato con gli accordi decentrati che prevedono rispetto alla produttività il meccanismo più ci sei più vieni remunerata, il salario complessivamente scende per la donna”. L'effetto potenzialmente discriminante delle politiche di premi basati sulla produttività diventa ancora più evidente nei casi in cui è consentito convertire una parte del salario premiale in altri benefici contrattuali mirati a favorire un migliore equilibrio tra vita professionale e familiare. In questa circostanza, la possibilità di scambio, particolarmente allettante per le lavoratrici, potrebbe contribuire ad accentuare non solo il divario salariale legato alla produttività, ma anche le disparità nell'accesso alle opportunità di avanzamento di carriera e, in generale, nel riconoscimento del merito.

Un problema di accesso alle carriere che, evidenzia la segretaria Cgil di Perugia, è condizionato dalla disponibilità soggettiva di risorse economiche e familiari.

A ciò si aggiunge il fenomeno dell'overeducation, ossia la presenza di persone occupate in professioni per le quali risultano “sovraistruite”. Un problema di inefficiente collocazione della forza lavoro, ma che in Umbria è particolarmente sentito:l’Umbria detiene infatti la percentuale più alta in Italia di overeducation che riguarda il 37,2 % delle occupate contro il 30% degli occupati. Questo significa che più di un terzo della popolazione lavorativa umbra è sovraqualificata, con tutte le conseguenti problematiche in termini di realizzazione professionale e produttività che ne derivano.

L’Umbria, stando ai dati Istat, è la regione con il più alto livello di copertura sull’offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia (43,7%).

"Una nota positiva - su cui insiste Scarpelli, si sono storicamente battute le organizzazioni sindacali a loro difesa e tutela negli anni”.

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